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Intervista

A cura di Chiara Agnello, curatrice d'arte indipendente

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Il tuo tavolo da lavoro mi sembra dire molto di te. Ci sono i tuoi colori ad olio e le tue terre organizzate in maniera scrupolosa.
Si, ci sono i tubetti di colori ad olio. È in effetti la tecnica che prediligo e con la quale ho iniziato molti anni fa, usando un set da pittura regalato a mia moglie per un suo compleanno. Ho poi scoperto il mondo dei pigmenti e ho iniziato a sperimentare usando materiali a me vicini, come le terre delle vigne, il carbone dei tralci rimasti dopo i falò delle potature invernali, la polvere di coppi e mattoni delle cascine di campagna.
Allora erano esperimenti, oggi sono parte di un processo circolare che mi radica al territorio in cui sono cresciuto e a quel sapere contadino in cui sono immerso.


«Cerco di immergere i miei protagonisti in una visione senza tempo. Come se loro fossero padroni di un tempo dilatato e sospeso».

 

L’attitudine con cui raccogli e sistemi i tuoi pigmenti in barattoli etichettati raccontano una parte importante del tuo fare.
Sono un chimico. La curiosità per i composti chimici e per i materiali ha da sempre influenzato il mio modo di guardare le cose e di approcciarmi alla pittura.
Con la stessa attitudine con cui svolgo il mio lavoro di ricercatore, ho iniziato infatti ad approfondire quanto trovavo sull’argomento, sia dal punto di vista artistico che tecnico-scientifico. I pigmenti sono stati un richiamo irresistibile.


«Mi piace cercare di semplificare la visione del mondo, vorrei essere diretto, forte, efficace. Nella pittura cerco di ridurre
la narrazione ai minimi termini per dare spazio a poche forme capaci di trasmettere emozioni».

 

Anche il luogo dove lavori dice molto della tua attitudine e del tempo lungo che ti prendi per ‘abitare’ le pitture.
Da qualche anno il mio studio si trova nella mansarda della nostra casa di famiglia, immersa in una natura spettacolare. Abitiamo in cima ad una collina circondata
da boschi e vigneti delle Langhe, a pochi passi da un monastero benedettino del XII secolo abbandonato. Ho la fortuna di viaggiare molto per lavoro, ma è qui che torno a ricaricarmi.


C’è un altro aspetto nel tuo lavoro che è frutto di una tua passione. Le immagini dipinte prendono spesso vita da una fotografia. Che relazione esiste fra questa e la pittura?
Fotografo molto da sempre. La fotografia mi ha insegnato nel tempo a fermare un istante, a definire un’inquadratura, a mettere a fuoco un dettaglio. La pittura poi mi permette di aggiungere all’immagine quello che con uno scatto non riesco a fare: le mie emozioni, il mio vissuto, le mie relazioni con il soggetto che scelgo di rappresentare.


Chi sono i protagonisti delle tue opere?
Dipingo quello che amo ed è intorno a me. Troverai tante colline, file di montagne e scorci tipici. E ancora i miei affetti, la mia famiglia. Anche nella più semplice delle composizioni, cerco di creare immagini che possano trasmettere in modo diretto una sensazione, uno stato d’animo. Ogni mio quadro nasce prima di tutto nella mia mente. A volte è più lungo il processo creativo mentale rispetto a quello concreto di produzione del quadro.
Mi dà molta soddisfazione costruire immagini nella mente e poi usare forme e colori per aggiungere un mio significato. Con la fotografia ho sempre cercato di fare la stessa cosa
ma alla fine con la pittura mi è più facile.


Quali artisti hanno influenzato il tuo modo di procedere?
Sono affascinato dagli artisti del Rinascimento italiano, dall’innovazione portata da Piero della Francesca per rendere la profondità di campo sulla superficie del quadro, dal chiaro scuro di Leonardo, dai colori di Vermeer. Mi piace molto osservare l’uso del colore negli
impressionisti come Monet o nel post-impressionismo di Van Gogh, dove il colore e il gesto pittorico diventano pura emozione. Ma quando ho scoperto Lucian Freud (1922-2011) il pittore tedesco naturalizzato britannico, nipote di Sigmund Freud, è stato un vero shock. La potenza espressiva dei suoi ritratti realistici e intensi risiede in ogni sua pennellata. Il coinvolgimento che riesce a creare nell’osservatore mi ha davvero
impressionato.

«Ogni mio quadro nasce nella mente. A volte è più lungo il processo creativo rispetto a quello produttivo».
 

A che cosa aspiri? Che direzione intendi dare al tuo lavoro futuro?
Mi piace cercare di semplificare la visione del mondo, vorrei essere diretto, forte, efficace.
Che sia, il gigante bianco del Monviso, un paesaggio di Langa o una figura umana, cerco di ridurre la narrazione ai minimi termini per dare spazio a poche forme capaci di trasmettere emozioni. Cerco di immergere i protagonisti dei miei quadri in una visione senza tempo. Come se loro stessi fossero padroni di un tempo dilatato e sospeso. Questa è la direzione che vorrei continuare ad indagare con il mio lavoro.

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